Siamo stati educati a non fidarci delle nostre emozioni, responsabili di distorcere le informazioni fornite dall’intelletto, tuttavia, si assiste oggi ad un incremento di interesse verso le emozioni nel contesto organizzativo: l’intelligenza emotiva sta diventando un fattore centrale anche nella selezione del personale all’interno dell’azienda. L’ambiente di lavoro, più di ogni altro, è un ambito in cui diventa basilare la combinazione armonica tra diverse capacità per stabilire rapporti costruttivi con gli altri, comprendere quando e come fidarsi delle proprie intuizioni e cogliere i flussi emotivi che si instaurano tra le persone, enfatizzando ed esprimendo le emozioni positive e deviando quelle negative.
Le emozioni ed il loro controllo sono intrinsecamente collegate all’organizzazione umana: le organizzazioni possiedono delle regole per il comportamento emotivo ed alcuni lavori esigono un maggiore controllo emozionale rispetto ad altri. I sentimenti ci accompagnano prima, durante e dopo il lavoro: è sempre sul lavoro che ci sentiamo a volte malinconici, arrabbiati e stressati e altre felici, eccitati e gioiosi. Solitamente i primi ci predispongono negativamente, mentre i secondi lo fanno positivamente. Si distinguono emozioni positive, ovvero quelle che facilitano l’interazione (nei rapporti interpersonali, ad esempio, tra capo e collaboratore), per esempio l’entusiasmo ed emozioni negative, che, invece, tendono a bloccarla (per esempio il panico o la rabbia). Nella gestione dei propri collaboratori è preferibile, per il manager utilizzare come fattore di motivazione l’emozione positiva, anche se quelle negative, se ben gestite, non sono da scartare: per esempio un leader a capo di un’azienda specializzata nelle vendite, potrebbe trasmettere ai propri sottoposti la paura di essere superati, sul mercato, dalla concorrenza.
Kets de Vries, Kilburg e altri hanno dimostrato che le emozioni umane interagiscono con l’abilità di pensare e con le capacità di svolgere bene il proprio lavoro: il ruolo preponderante delle emozioni deve essere controllato perché potrebbe, letteralmente, “distruggere”, o comunque rovinare le singole persone o addirittura intere organizzazioni. In linea generale sono riconoscibili due tipi di emozioni umane riferibili al contesto organizzativo:
- emozioni congruenti con lo scopo (obiettivo): sono le emozioni percepite come positive, ovvero gioia, felicità, orgoglio, speranza, pietà (o compassione) e conforto
- emozioni incongruenti con lo scopo: sono quelle percepite come negative, ovvero paura, ansia, vergogna, tristezza, gelosia e disgusto.
La vergogna è uno degli stati emotivi più difficoltosi per l’individuo che la prova. Questo sentimento è estremamente intenso, produce un senso pronunciato di inutilità e la persona che lo sperimenta per un lungo periodo non può non riportare profonde conseguenze a livello psicologico.
La tristezza fa provare all’individuo un senso di esclusione, di abbandono e, spesso, può sfociare, clinicamente, nella depressione. La paura è quell’emozione che porta l’individuo ad essere arrabbiato e aggressivo con gli altri, quasi per difendersi dal proprio stato di ansia.
La gioia è una di quelle emozioni con un enorme potere, che fa sentire l’individuo felice, deliziato e motivato nel compiere il suo lavoro.
Come ben spiega Fineman (Emotion in Organizations, 2000), le organizzazioni costituiscono delle “arene emozionali” (emotional arenas) per catturare la frenetica attività delle emozioni vissute nella vita organizzativa. Sappiamo dalle ricerche statunitensi della Scuola delle Relazioni Umane che un’organizzazione non è solo ed esclusivamente basata su fattori tecnici ed economici, ma anche, e soprattutto, su rapporti interpersonali, aventi una forte caratterizzazione psicologica.
È infatti possibile riconoscere due differenti prospettive: quella razionale e quella naturale. Seguendo il primo orientamento il discorso sulla razionalità della realtà lavorativo-organizzativa è riducibile all’assunto che l’organizzazione è strutturata secondo il principio mezzi-fini. La struttura è quindi costruita perché l’organizzazione possa raggiungere specifici risultati ed il comportamento delle organizzazioni è concepito come un’azione coordinata di agenti che tendono verso uno stesso scopo. Tale coordinazione è garantita dall’assetto normativo-formale della struttura sociale dell’organizzazione. Come sottolineato da Pedon e Borrello nel libro Temi di psicologia del lavoro e delle organizzazioni (2004), la prospettiva razionale si basa sulla concezione dell’uomo come “economico”, cioè come individuo che preferisce la sicurezza di un compito definito rispetto alla libertà di un’attività discrezionale. A tale concezione si è andata sostituendo quella di “uomo amministrativo”, cioè quella di uomo come decisore individuale anche se limitato cognitivamente per quanto riguarda l’individuazione dei propri interessi e la loro realizzazione. A partire da tale cambiamento nella definizione di uomo, si arriva all’enunciazione della prospettiva naturale. Secondo quest’ultima “il comportamento dell’organizzazione è dotato sì di qualità razionali che vanno riferite agli aspetti formali della struttura sociale dell’organizzazione ma anche da dimensioni non razionali, che vanno attribuite alla natura degli attori individuali, alla dinamica delle relazioni intra- e inter-gruppali, al funzionamento dell’organizzazione e alla relazione che l’organizzazione stringe con l’ambiente”. Si può dire quindi che il tessuto organizzativo è tenuto insieme non tanto dalla struttura sociale formale dell’organizzazione (gerarchia di status tra i partecipanti, differenziazione dei ruoli, specializzazione delle funzioni, …) ma da quella informale (qualità personali dei membri, dai loro interessi e dalle loro interazioni).
I teorici delle relazioni umane hanno evidenziato, quindi, la presenza dei bisogni dell’individuo ed inoltre hanno sottolineato il loro impatto sulla prestazione lavorativa (performance): è fondamentale il rispetto per il lavoratore, che è un essere umano responsabile e sensibile (Kets de Vries e Miller, L’organizzazione nevrotica, 1992). L’individuo è, in sostanza, visto come essere razionale, ma anche emotivo.
I suddetti cambiamenti di prospettiva hanno avuto importanti nonché ovvie conseguenze nella strutturazione delle organizzazioni. Dalla prospettiva razionale ebbe luogo un modello organizzativo con una struttura piramidale, dove le gerarchie sono predominanti. Per una serie di motivi, tra cui l’eccessivo accentramento, la scarsa responsabilizzazione, la lentezza informativa e la burocratizzazione delle relazioni, questa struttura tende ad essere sorpassata da strutture più snelle e flessibili, dove le gerarchie si appiattiscono e la piramide assume una forma più schiacciata: siamo di fronte alla struttura delle aziende moderne.
La nuova organizzazione si deverticalizza, l’impresa diventa “orizzontale” e si esternalizza, non è più chiusa su se stessa, è un’azienda ad assetto variabile, indefinita e caratterizzata dalle sole risorse umane. Il nocciolo dell’impresa tende a rimpicciolirsi, mentre le sue ramificazioni si estendono al mondo interno. Mentre un tempo bastavano poche persone per decidere e ancor meno per innovare, oggi sempre più è richiesto a tutte le persone che operano nell’impresa, ai diversi livelli e nelle diverse mansioni, di conoscere, decidere, essere creativi (Lanzavecchia, Il lavoro di domani. Dal taylorismo al neoartigianato, 1996). Strumento privilegiato delle imprese moderne per ogni tipo di intervento, risulta essere il lavoro di gruppo (team-work) poichè con esso viene garantita una sempre maggiore integrazione verticale ed orizzontale. Per ciò che riguarda la qualità anche qui siamo di fronte ad uno sviluppo del pensiero manageriale.
Si è passati da un’attenzione esclusiva alla produttività ad una concezione più moderna, dove la qualità diventa l’elemento chiave per soddisfare il cliente, diventare competitivi sul mercato ed incrementare vendite e profitti. Occorre precisare che la qualità è comunque il risultato del comportamento individuale ed interpersonale degli “addetti ai lavori” che operano nell’organizzazione. Ne consegue che nel pensiero manageriale e nelle stesse aziende sembra esserci un certo livello di consapevolezza rispetto all’impatto dei fattori emotivi nel raggiungimento degli obiettivi organizzativi. Questa consapevolezza porta, inevitabilmente, il manager (o il leader) ad occuparsi non solo ed esclusivamente degli elementi tecnico – specifici, economico – organizzativi e metodologico – strategici, ma anche di aspetti più propriamente “relazionali” ed emotivi.